di GIUSEPPE SANZOTTA
Partiamo da un fatto, il solo certo fino a questo momento: la presentazione da parte della maggioranza di un progetto di revisione costituzionale. Un progetto che si basa sul premierato, cioè sull’elezione diretta del presidente del Consiglio. Una apertura verso quella parte della politica italiana irritata al solo sentire parlare di presidenzialismo o semipresidenzialismo. Ma l’effetto, stando almeno alle prime reazioni, è stato lo stesso. Subito si sono fatti sentire i difensori a ogni costo del testo redatto dopo la seconda guerra mondiale. Così come accaduto più volte in passato abbiamo sentito elogiare la nostra Costituzione come la più bella del mondo da applicare e non da cambiare. Eppure fin dal 1983 con la Bicamerale presieduta dal liberale Bozzi si è posta l’esigenza di rivedere la Carta. Esigenza che si è manifestata ciclicamente con le commissioni presiedute, da De Mita, Jotti, D’Alema. Fallite le Bicamerali ci provò la maggioranza del governo Berlusconi a modificare il testo partendo dalla “riformetta” varata dal centrosinistra (di cui sono tutti pentiti) con la modifica del titolo V . La riforma passò in Parlamento, ma fu poi il referendum a cancellarla. La stessa mannaia che colpì anche la proposta di Renzi e del Pd.
Ora ci prova Meloni, saranno mesi di confronti, di discussioni. Nelle varie Tv impareremo tutti a conoscere costituzionalisti ed esperti ignoti ai più. Un po’ come è stato per i virologi durante l’emergenza covid. Anche stavolta lo scenario appare segnato . La maggioranza andrà avanti con la riforma, il testo sarà discusso, forse anche modificato rispetto a quello originario, ma di una cosa possiamo stare certi: la sinistra e i 5stelle non daranno il proprio consenso, non ci sarà l’approvazione da parte dei due terzi dei parlamentari e così la parola passerà agli elettori con il referendum: vera mannaia, fino ad oggi, di ogni proposta di modifica. Già sono in campo i difensori del testo del ’48 al grido : non si tocca la Costituzione più bella del mondo. Già, ma non è dato sapere quale giuria abbia decretato quella classifica. La cosa certa è che in Italia, dal dopoguerra la durata media dei governi è stata di poco superiore ai 400 giorni. Così come è certo che destra e sinistra pur partendo da idee diverse hanno cercato di cambiare quel testo. A ben vedere, anche se poi non se n’è fatto nulla, la riforma Renzi, da segretario el Pd, era ben più radicale di ogni altra. Non entriamo in questa sede nei tecnicismi, avremo modo di parlarne e soprattutto di ascoltare tesi diverse contrapposte, quel che ci interessa sottolineare è che la definizione delle regole del gioco dovrebbe riguardare tutti, che sarebbe logico concorrere tutti alla soluzione migliore. Invece è la contrapposizione a ogni costo ad avere il sopravvento e già possiamo immaginare il tema ricorrente della campagna referendaria, anzi a sinistra si sta già mettendo in piedi. Nella manifestazione in occasione dello sciopero indetto da Cgil e Uil più volte si è sottolineata da necessità di difendere la Costituzione dagli assalti della destra. Sarà questo il piatto forte della sinistra; l’accusa al governo di cercare formule autoritarie, è una costante. O in nome dell’antifascismo, o delle libertà civili, la maggioranza che sostiene Giorgia Meloni è vista come tendenzialmente antidemocratica e votata alla limitazione delle libertà. Eppure sarebbe facile notare che le regole, una volta cambiate varranno per il futuro, varranno per tutti, quindi anche per ipotetiche maggioranze di sinistra. Comunque a scegliere sarebbero sempre gli elettori. Se oggi, stando ai sondaggi, gli italiani dovessero scegliere con il voto un premier, quasi sicuramente farebbero ricadere il consenso su Gorgia Meloni. Ma chi può dire cosa accadrebbe tra 5, 10 o 15 anni? La miopia politica porta a giudicare una norma dai vantaggi o svantaggi che potrebbe determinare nel presente, non vedendo che in futuro potrebbe invece favorire o sfavorire altri attori. Le regole sono così, non privilegiano una fazione. Hanno il solo scopo di far funzionare le istituzioni. Per questo andrebbero giudicate. Non utilizzate per fini di parte o per nascondere, in questo caso, la debolezza delle proposte dell’opposizione.
Lo dimostrano le contestazioni che arrivano da sinistra. Si spende poco per la sanità? Ma chi ha ridotto la sanità italiana in questo stato? Non certo l’attale governo? È un male più antico. Bassi stipendi, precarietà, pensioni non adeguate all’inflazione, ecc. Di chi la colpa? Di chi governa da un anno? O forse ci sono responsabilità di chi al governo del Paese c’è stato a lungo? Ecco che allora questa opposizione punta a mettere in discussione lo spirito democratico dell’avversario. Inoltre c’è un a questione non secondaria. Grazie ai governi tecnici il Pd è entrato in maggioranza anche perdendo le elezioni. È stori antica, fu così con Dini nel ’95, è stato così con Monti nel 2011, con Draghi nella precedente legislatura. Con la riforma che sarà esaminata nei prossimi mesi non sarà più così. Viene meno il piano b che ha fatto comodo soprattutto al Pd. Meno al Paese a prescindere dalle qualità delle personalità chiamate a guidare il governo. Il fatto è che solo una maggioranza politica coesa ha la possibilità di impostare un programma di lungo respiro senza restare impantanata in estenuanti mediazioni tra veti incrociati di forze politiche con posizioni diverse e talvolta contrapposte.
Forse le questioni costituzionali non saranno al centro delle preoccupazioni delle famiglie italiane, ma le regole costituiscono la base su cui si possono sviluppare le politiche dei governi. Politiche che devono dare risposte alle esigenze dei cittadini. E di una Costituzione che faccia tesoro di 75 anni di vita, che si adegua ai tempi ne hanno bisogno tutti. A destra come a sinistra.